20 maggio 2021, ore 16,30 Università degli Studi di Teramo. Presentazione del testo 2 giugno. Nascita, storia e memorie della Repubblica, Vol. 3, Geografia del voto e istituzioni, a cura di Tito Forcellese, Viella, Roma, 2020.
Il volume a cura di Tito Forcellese rappresenta uno dei sei tomi in cui si articolano i frutti della ricerca 2 giugno 1946. Nascita, storie e memorie della Repubblica, promossa dalla Società italiana della storia per lo studio della storia contemporanea (SISSCO), cofinanziata dalla struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale della Presidenza del consiglio dei ministri e diretta da Maurizio Ridolfi. L’attività di ricerca ha impegnato studiosi di ogni parte d’Italia e si è avvalsa anche della collaborazione di storici provenienti da università straniere quali Christoph Cornelissen (Goethe Universität, Frankfurt am Main) dal 2017 Direttore dell’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler, a Trento[1].
Geografia del voto e istituzioni affronta il tema del triplice voto del 1946 – amministrativo, referendario e dei deputati all’Assemblea costituente – nelle sue articolazioni territoriali, siano esse regionali, provinciali, locali, oppure invece aggregati geografici più ampi, i cui confini non rientrano strettamente in quelli amministrativi. Il valore aggiunto del volume è costituito dallo scavo verticale nelle vicende elettorali di territori non di rado indagati ex novo, oppure in passato solo parzialmente esplorati, in un’ottica di lungo periodo, dove assieme ai dati congiunturali vengono prese in esame le subculture politiche (bianca o rossa), la struttura economica dei territori analizzati e persino gli influssi geografici sul voto.
Dopo una densa introduzione del curatore, che riprende capillarmente i passaggi storiografici, politologici, ma anche le aperture metodologiche emerse dal lavoro di ricerca sul tema – tra le più interessanti «una innovativa applicazione del Gis (Geographic Information System) rispetto alla possibile realizzazione di carte geografiche digitali sul voto referendario del 1946» (p. 7) – il volume si apre con un saggio di Giovanni Schininà, Il triplice voto siciliano del 1946 tra disomogeneità, persistenze e discontinuità. Il primo punto su cui vale la pena riflettere è che, se tutti gli autori del volume lasciano emergere significative difformità nel comportamento elettorale tra un luogo e l’altro di identici aggregati territoriali (Sicilia, Sardegna, Lombardia, ecc.), pure sembrano sussistere marcatori, che distinguono chiaramente il Nord dal Sud.
Prima di addentrarsi nelle “Sicilie” che hanno affrontato il voto del ’46 Schininà osserva che «il quadro elettorale complessivo [siciliano] è chiaro e netto e combacia con l’analoga tendenza riscontrabile nel voto medio meridionale», dove prevalgono «l’opzione monarchica […], la preferenza per le formazioni di centro-destra» (p. 27) e una significativa prevalenza democristiana. È innegabile che la scelta monarchica abbia ottenuto il 64,7% dei voti e quella repubblicana solo il 35,3% (p. 27) pur all’interno di realtà tra loro assai sventagliate, con territori, quali il Ragusano, scarsamente permeati dal voto a favore della monarchia, vittoriosa solo grazie al trascinamento a maggioranza monarchica del capoluogo di provincia, e una provincia, il Trapanese, in cui il voto a favore della Repubblica ha avuto la meglio, in virtù di una subcultura repubblicana di matrice risorgimentale. Ma ad affossare l’opzione a favore della Repubblica, spiega l’autore, hanno contribuito enormemente il Messinese, il Catanese e il Palermitano i cui capoluoghi, in particolare, hanno conosciuto una profonda trasformazione sotto il fascismo: da territori con una forte presenza socialista e massonica sono divenuti ricettacoli delle destre, un fenomeno ancora scarsamente esplorato.
Tutto il Sud racchiuso nei confini dell’ex Regno delle due Sicilie, con l’aggiunta della Sardegna, rivela pur con sfumature gli stessi tratti, all’interno di un tasso di disomogeneità nel comportamento elettorale, che di là dalle medie aritmetiche è tuttavia presente ovunque e che è massimo in Sicilia. Basta leggere i saggi di Salvatore Mura, Il referendum istituzionale in Sardegna, di Gaetano Morese, «Il dilemma Monarchia-Repubblica» in Basilicata, di Tito Forcellese, Il voto in una regione adriatica: il caso dell’Abruzzo, per rendersene conto. Anche qui alla prevalenza del voto monarchico si affiancano isole e province repubblicane, oltre che specifiche sub-culture politiche, tra le quali non mancano enclavesliberali, repubblicane, socialiste e comuniste. Mura, Morese e Forcellese, peraltro, sono autori di saggi territoriali paralleli nel 2° volume della serie 2 giugno. Nascita, storia e memorie della Repubblica, già indicata nell’incipit, in cui analizzano aspetti più strettamente connessi alle dinamiche economiche-sociali che hanno portato al triplice voto del ’46.
Un saggio cerniera tra il Sud e il centro-nord del Paese è quello di Agnese Bertolotti, Tra città e provincia, all’ombra della capitale: l’avvento della Repubblica a Viterbo e nella Tuscia, nel quale l’autrice tratteggia il voto del ’46 in provincia di Viterbo, la cosiddetta «Tuscia», dal comportamento elettorale specifico e ben più nitidamente repubblicano rispetto a quello della provincia romana. Qui può notarsi una inclinazione elettorale da parte del capoluogo di provincia apparentabile a quella dei capoluoghi provinciali del centro-nord e in quanto tale apertamente repubblicana, diversamente da quanto avviene in quelli del Sud, dove il voto è nettamente monarchico, anche in città con una forte sinistra come Ragusa. La divergenza del viterbese dalla provincia di Roma affonda le sue radici nel «plebiscito popolare del 2 ottobre 1870, che sancì il distacco dalla realtà pontificia e [nella] annessione al Regno d’Italia della città» (p. 134).
Attraverso una attenta analisi documentaria e lo spoglio del settimanale «Il Bulicame», l’autrice richiama le attese del voto del ’46 e l’attenzione verso l’elettorato femminile che «secoli di vita casalinga [avevano] costretto […] nel piccolo e angusto cerchio della vita famigliare» (p. 136). Nel capoluogo, in cui la maggioranza dei voti va alla DC, forte è anche il successo del partito repubblicano e significativa la presenza dei comunisti in tutta la provincia.
L’aggregato provinciale della Tuscia getta un ponte col saggio successivo di Elisabetta Sellaroli e di Giacomo Zanibelli, Verso uno studio dinamico dell’andamento elettorale: la geografia del voto referendario del 1946 nella macroarea della Maremma. La Maremma è infatti amministrativamente composita, abbracciando al suo interno parte delle province di Livorno, Grosseto, Pisa, Roma, e, appunto, Viterbo. Gli autori lanciano una provocazione metodologica: partire dalla struttura economica dei territori invece che dalle subculture politiche, per analizzarne gli influssi elettorali: «Gli studi qualitativi avanzati sul comportamento di voto in relazione alle culture politiche non hanno tenuto nel debito conto gli studi economici portati avanti sui territori sui quali persistono tali subculture», osservano (p. 155). La Maremma «è un territorio fluido che si estende lungo la costa tirrenica i cui confini sono tracciabili lungo un asse che va da Cecina (Livorno) a Civitavecchia (Roma)» (p. 161). Le caratteristiche di questa zona sono una fortissima concentrazione fondiaria, in larga parte appartenente «alla grande proprietà», le cui estensioni sono le maggiori d’Italia. Attraverso affinate metodologie Sellaroli e Zanibelli ne rendono conto anche cartograficamente (p. 163).
Il voto referendario del ’46 in questa zona sarebbe stato sollecitato in direzione monarchica o repubblicana a seconda della ampiezza delle diseguaglianze nel possesso della terra, land inequality: esso si orientava a favore della monarchia quanto più diseguale era la concentrazione proprietaria e della repubblica quanto più appariva egualitaria. Poi c’è l’indice di ruralità (Iru) costituito dalla percentuale degli agricoltori sul complesso degli attivi, dall’ «incidenza degli abitanti nelle case sparse sul totale della popolazione residente» e dalla densità della popolazione per KM2), che, al contrario, quanto più era alto tanto maggiormente spingeva a favore del voto repubblicano nel ‘46.
La sfida metodologica è duplice, perché la prova che la diseguaglianza porti tendenzialmente al voto monarchico e l’indice di ruralità a quello repubblicano è dimostrata da equazioni econometriche, che introducono uno specifico criterio di misurazione del voto elettorale.
C’è da chiedersi se la forbice della diseguaglianza non induca a diffidare più in generale della democrazia e delle istituzioni, come argomentano peraltro ne I casi del Veneto e della Toscana Marco Almagisti e Matteo Zanellato. Costoro rilanciano il tema delle culture politiche negli influssi elettorali e sull’onda di studi consolidati ritengono «che un governo efficace debba basarsi anche sui valori e lo spirito pubblico dei cittadini» (pp. 187-188). Riprendendo Gabriel Almond e Sidney Verba osservano: «gli autori sostengono che la democrazia possa durare nel tempo solo se sostenuta da un particolare tipo di cultura politica, la civicness (“cultura civica”), che costituisce il risultato di una combinazione di forme tradizionali di partecipazione con elementi di apatia, passività politica, di deferenza verso le istituzioni politiche e le autorità costituite» (p. 188). E del resto alla civicness ha fatto ricorso anche Emanuele Felice nel suo Perché il Sud è rimasto indietro osservando che la polarizzazione sociale indotta dalle diseguaglianze porterebbe a diffidenza e sfiducia verso le istituzioni.
Secondo gli autori le subculture politiche territoriali, “rossa” nel centro-Italia e “bianca” nell’Italia del Nord-Est, sarebbero state generate dalla frattura dei processi di State-building lungo il solco dello strappo tra centro e periferia, come sarebbe avvenuto nell’Italia centrale, dove hanno dominato fino al 1992 la subcultura rossa e il PCI e della frattura Stato-Chiesa, tipica dell’Italia nord-orientale, dove l’egemonia è stata fino a quel momento della DC.
Se il Sud e la Sardegna appaiono territori largamente disomogenei nel comportamento elettorale, non lo sono da meno regioni come la Lombardia o il Piemonte su cui insistono Elisabetta Colombo nel suo Referendum istituzionale e comportamenti elettorali nelle province lombarde e Luca Tentoni in Alle radici del voto del 1946 nei capoluoghi di regione. Colombo sottolinea la difficoltà di tracciare linee di omogeneità in un territorio che solo «nel primo Ottocento, al congresso di Vienna» ha trovato chiare delimitazioni amministrative (p. 207). La Lombardia è inoltre policentrica e fatica a riconoscersi per intero nel capoluogo milanese, senza contare le difformità orografiche, che differenziano nettamente la parte collinare da quella montagnese e dalla pianura. Nel secondo dopoguerra, la pregressa esperienza fascista ha lasciato guadagnare al cattolicesimo e alla DC la maggioranza relativa nei capoluoghi di provincia comasco, bresciano, pavese, di Sondrio e del Varese, mentre a Bergamo, tradizionalmente bianca, la maggioranza democristiana era assoluta nel ‘46, p. 216. Milano invece era rossa e largamente socialista. In Lombardia i partiti di destra erano deboli. L’autrice spiega la prevalenza del voto referendario repubblicano in quel territorio con la frattura nei confronti di Casa Savoia generata dalla esperienza salodiana e resistenziale del ’43 non mancando tuttavia di rilevare le difformità nel voto repubblicano nelle diverse aree del territorio e il suo maggiore grado rispetto alla scelta istituzionale compiuta nel resto del Nord, compreso il Piemonte, ma anche il suo minore impatto – per converso – riguardo all’Emilia Romagna, in cui il voto a favore della Repubblica ha toccato il 77%, contro il 64% lombardo.
Alessandro Celi analizza il voto referendario nelle province di Asti, Bergamo, Cuneo e Padova, le uniche province nell’Italia del centro-Nord a pronunciarsi a favore della monarchia, con un accento particolarmente pro-monarchico nel cuneese. Secondo l’autore fu la presenza della Resistenza dei militari a incidere sul risultato finale, mentre quella giellista e garibaldina avrebbe portato al voto a favore della Repubblica. Ma non minore incidenza avrebbero avuto nel voto referendario le specificità economiche delle diverse zone (ad esempio nei centri industriali si era votato a favore della Repubblica), la presenza di feudi elettorali tradizionali (Dronero era classicamente monarchica e liberale), «la permanenza di fedeltà nobiliari o notabilari», la dislocazione delle bande partigiane badogliane e gielliste.
Per quanto concerne l’Astigiano si possono forse ricordare i rilievi di Nicoletta Fasano e Mario Renosio sulla struttura prevalentemente contadina della provincia e la diffusione colà del voto democristiano, che sebbene non abbia portato necessariamente alla preferenza verso la monarchia né nel centro-Nord, né nel Sud, vi ha però certamente contribuito in maniera non trascurabile. E il nesso andrebbe, appunto approfondito anche relativamente all’Italia settentrionale, come non ha mancato di sottolineare la stessa Elisabetta Colombo nel saggio sulla Lombardia innanzi richiamato. Il volume comprende infine i saggi di Nicola Tonietto, Veneto “bianco” e voto monarchico nel referendum costituzionale, e di Luca Tentoni, Alle radici del voto del 1946 nei capoluoghi di regione. Il primo si sofferma sull’unica provincia che nel Nord-Est votò a favore della monarchia, quella di Padova, mentre il secondo analizza a fondo il comportamento elettorale nei capoluoghi di provincia. Tonietto sfata l’idea di un voto referendario repubblicano compatto nel Veneto, osservando che esso fu tale solo nelle «cittadine aventi alle spalle una tradizione laico-risorgimentale o una significativa presenza operaia» (p. 247). Osserva però anche che ad ostacolarlo sarebbe stata la ritrosia di fasce di reduci partigiani, preoccupati di arrestare l’avanzata del comunismo, che temevano grandemente.
In conclusione, dalla lettura del volume e dalla discussione che si è svolta con alcuni degli autori in seguito alla presentazione del libro sono emerse alcune questioni nodali: la prima è il continuo riaffiorare di quelle che Maria Serena Piretti ha definito «le due Italie», ma anche di molteplici sfumature che ne attenuano le divergenze. Nelle parole di Pierluigi Totaro, ha senso continuare a parlare di un Nord e di un Sud Italia a fronte dei nuovi scavi archivistici, che hanno dimostrato la scarsa tenuta di un modello interpretativo dualistico che, «parrebbe non del tutto adeguato a comprendere la più articolata – rispetto alla duplice metafora del “vento del Nord” e del “vento del Sud” – “rosa dei venti” politici e sociali che soffiavano sull’Italia di allora»[2]? Questo in merito al responso referendario relativo alla scelta Monarchia/Repubblica.
Da tempo la storiografia ha scardinato l’idea di un Sud immobile e privo di dinamismi, pur nella consapevolezza che il Mezzogiorno «sia rimasto indietro», quanto meno sul piano dello sviluppo economico e secondo Emanuele Felice anche della “civicness” (Perché il Sud è rimasto indietro). È convinzione di chi scrive che il gap Nord/Sud sussista e che si esprima ad ogni livello del vissuto civico e politico, tanto nei costumi istituzionali, quanto in quelli più propriamente socio-economici. E gli studi del volume curato da Forcellese non smentiscono fino in fondo tale divaricazione neppure nelle scelte elettorali.
Dal lato della rappresentanza politica femminile si può osservare un profondo dinamismo in alcune aree del Mezzogiorno, che emerge anche da alcuni saggi del testo presentato: nel lavoro di Gaetano Morese sulla Basilicata l’Udi (Unione donne italiane) e il Cif (Centro italiano femminile) affiorano come veri e propri partiti politici organizzati allo scopo esclusivo di sostenere candidature femminili. Si tratta di un dato che emerge con ricorrenza dalle ricerche degli studiosi, ma che lascia il dubbio fossero le istituzioni a ritenere che quelle due fondamentali associazioni di donne si fossero organizzate in partiti[3]. Tale era la situazione secondo Morese, mentre a parere di chi scrive non è affatto da escludere che esse lo fossero a tutti gli effetti. È una questione che andrà ulteriormente verificata. In ogni caso, l’idea di scarse candidature o voti alle donne nel Sud almeno per la Sicilia è stata abbondantemente smentita da ricerche recenti: relativamente alle sole tornate amministrative del 1946 nel Nisseno è emersa l’elezione di 30 donne, di ulteriori 30 nell’Agrigentino e di 20 nel Palermitano. Ciò a ridosso della enorme mobilitazione prodotta per le lotte contadine e dei minatori a capo delle quali le donne si erano poste sin dal Risorgimento, ma che nel ‘46 avevano trovato espressione nella pronuncia di un voto a favore di chi le aveva sostenute[4]. C’è da chiedersi se non sia effettivamente il livello municipale quello nel quale il voto a favore delle donne sia stato più promettente, come del resto è emerso da tempo dalla storiografia internazionale, e se non è in quella direzione che occorra guardare per assistere all’emersione di entità di elette non del tutto irrisorie. Nella discussione si è dibattuto quanto il ruolo significativo del PCI nel promuovere candidature femminili e in misura maggiorata rispetto all’allora Psiup su scala nazionale fosse da connettere a una questione generazionale, secondo Schininà plausibile, ma da verificare, e a parere di chi scrive cruciale nella definizione degli spazi da attribuire alle donne in politica.
Nel dibattuto Sellaroli ha chiarito meglio le implicazioni metodologiche della sfida econometrica lanciata col saggio scritto assieme a Zanibelli sul voto elettorale in Maremma nel 1946, spiegando a fondo i concetti di «land inequality» e di «indice di ruralità». Infine, Celi ha interagito con quanti hanno sollevato la questione del voto referendario monarchico nel cuneese che aveva conosciuto largamente la Resistenza, scendendo anche nel dettaglio delle implicazioni della Resistenza badogliana nella valenza del voto.
Il volume attinge ampiamente alla ricerca, ma apre anche a nuove traiettorie metodologiche e documentarie.
[1] Per maggiori approfondimenti cfr. il sito il 2 giugno.it disponibile al seguente link: www.il2giugno.it.
[2] Cfr. Pierluigi Totaro, Repubblica e Monarchia. Un’analisi statistica e geografica del voto referendario, in Maurizio Ridolfi e Pierluigi Totaro (a cura di), Nascita, storia e memorie della Repubblica, Vol. 6, I numeri del referendum istituzionale, Viella, Roma, 2020, p. 55.
[3] Cfr. Gaetano Morese, «Il dilemma Monarchia-Repubblica» in Basilicata, in Tito Forcellese (a cura di), Geografie del voto e istituzioni, cit., p.p. 82-83. E inoltre Giovanni Schininà, Siracusa 1943-1948. Verso la democrazia dei partiti, Bonanno, Acireale-Roma, 2004, p. 69. Mi permetto infine di rimandare al mio Giovanna D’Amico, Il lungo ’46 delle donne in Sicilia e in Piemonte. Mobilitazione, voto e rappresentazioni della Repubblica, in Salvatore Adorno (a cura di), Nascita, storia e memorie della Repubblica, 2° Vol., Territori, culture politiche e dinamiche sociali, Viella, Roma, 2020, pp. 111-138.
[4] Sul punto cfr. Giovanna D’Amico, Il lungo ’46 delle donne in Sicilia e in Piemonte. Mobilitazione, voto e rappresentazioni della Repubblica, in Salvatore Adorno (a cura di), Nascita, storia e memorie della Repubblica, 2° Vol., Territori, culture politiche e dinamiche sociali, Viella, Roma, 2020, pp. 111-138. Le biografie delle elette in queste zone e nel Vercellese e nel Novarese sono peraltro disponibili al seguente link: www.il2giugno.it.